n. 1 - Gennaio 2015 |
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Il trattamento anti-HBV nel paziente con malattia lieve: quando e perché |
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Mauro Viganò
U.O. Epatologia, Ospedale San Giuseppe, Università di Milano |
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Dagli studi di storia naturale si evince che il decorso dell’epatite cronica B attiva è evolutivo e che tale progressione - condizionata da fattori propri del virus e dell’ospite - determina nel tempo l’accumulo di fibrosi nel fegato, favorendo così lo sviluppo della cirrosi e delle sue complicanze quali lo scompenso ascitico, il sanguinamento gastroenterico e l’epatocarcinoma (1) (Figura 1).
Tra i più importanti fattori di rischio per la progressione di malattia vi è il livello di replicazione virale; esiste, infatti, una correlazione diretta tra i livelli di HBV DNA nel siero e l’incidenza di cirrosi, epatocarcinoma e morte fegato-correlata (2,3) (Figure 2 e 3). ► continua |
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I pazienti con fibrosi lieve |
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Per quanto sopra esposto, è riduttivo, oltre che sbagliato, escludere dal trattamento i pazienti con una fibrosi lieve. A mio avviso, l’indicazione al trattamento è un poco più articolata e non può prescindere dal conoscere, in ogni singolo paziente, la fase di malattia, la familiarità per cirrosi e/o epatocarcinoma, gli eventuali co-fattori di malattia, ma, soprattutto, i livelli di replicazione virale e delle transaminasi valutati nel tempo a intervalli regolari. In presenza di indici di cito-necrosi e di replicazione virale elevati in maniera intermittente o persistente in un paziente con almeno uno dei seguenti fattori di rischio: familiarità per cirrosi e/o epatocarcinoma, abuso alcolico, provenienza da Paesi ad elevata endemia, sovrappeso, steatosi, steato-epatite, sovraccarico marziale, sindrome metabolica e/o diabete, età superiore ai 30 anni, vi è l’indicazione a trattare pur in assenza di una fibrosi significativa e persino in mancanza del dato istologico. ► continua |
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L’effetto “protettivo”
del trattamento antivirale |
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Tutti gli elementi analizzati, ma soprattutto la disponibilità di antivirali potenti, con elevata barriera alla resistenza, ben tollerati e sicuri, e pertanto in grado di mantenere per un lungo periodo i benefici della terapia, supportano l’indicazione ad anticipare il trattamento antivirale nei pazienti con malattia lieve, prima cioè della comparsa di ciò che in altri ambiti della medicina è definito come “danno d’organo”. Intervenire negli stadi precoci di malattia permette di modificare la storia naturale dei pazienti e migliorare sia la qualità di vita sia la sopravvivenza degli stessi. Tra gli antivirali ad azione diretta, tenofovir ha dimostrato nel lungo periodo elevate percentuali di risposta virologica, biochimica e sierologica. Dopo 7 anni di trattamento, all’analisi per protocol, ben il 99% dei pazienti HBeAg-negativi e HBeAg-positivi mostra una carica virale non rilevabile; il 37% ha ottenuto la sieroconversione ad anti-HBe, mentre la clearance dell’HBsAg e la sieroconversione ad anti-HBs è stata raggiunta dall’11% e dall’8% dei pazienti, rispettivamente, senza comparsa di farmaco-resistenza (16). ► continua |
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Con il contributo non condizionato di
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