Il titolo/slogan di questo editoriale è abitualmente associato a quella parte di persone che hanno contratto l’infezione da HIV e che hanno un limitato accesso ai farmaci. Negli articoli che seguono in questo numero della rivista, oltre allo scenario classico descritto da Stefano Vella, cioè quello focalizzato sul tema prioritario del presente e del futuro della terapia antiretrovirale nei paesi in via di sviluppo, Enrico Girardi riporta e commenta dati che, in Italia, lasciano intravedere favorevoli segnali di novità epidemiologiche sul fronte della dinamica della evoluzione della epidemia e sull’annoso problema degli “esclusi” dalla cura perchè non diagnosticati (sommerso). Il titolo vuole richiamare però l’attenzione anche e soprattutto su quella parte di PLWH (la maggioranza in Europa, nelle Americhe ed in Australia) che viene diagnosticata sebbene in modo non sufficientemente approfondito (vedi articolo di Mariella Santoro) e soprattutto trattata talvolta con strumenti superati e che in pochi particolari casi (HTE) hanno perso la loro efficacia (vedi articolo di Antonella Castagna). In questo momento è di grande attualità un cambiamento radicale della terapia antiretrovirale sotto l’aspetto del management e della convenience: la terapia long acting per via parenterale inizia una nuova epoca alla fine di un trentennio di farmaci per os che non ha mai interrotto un percorso di continuo miglioramento in termini di efficacia, tollerabilità e convenience e conseguentemente di QoL. Giuliano Rizzardini descrive i possibili modelli logistico-organizzativi che potranno consentire di concretizzare questa metamorfosi.
Il tragitto che ha portato a lanciare gli obiettivi 90/90/90 (ed al possibile rilancio ai 95/95/95) in un prossimo futuro però non è stato lineare e i concetti di survival/undetectability/normalization che lo hanno ispirato non sempre possono essere combinati con quello di long life treatment, considerato che le PLWH in terapia efficace da molti anni sono arrivate a questo risultato talvolta passando attraverso varie classi di farmaci, diverse combinazioni e/o diverse strategie come induzione-mantenimento, semplificazione e personalizzazione, per definizione molto differenti nei singoli casi.
Oggi a mio parere è tempo di fare una valutazione complessiva delle caratteristiche e peculiarità dei pazienti in trattamento cronico, per i quali sono state sviluppate terapie innovative, a partire dalla constatazione che la storia di terapia della maggior parte delle persone che hanno cronicizzato l'infezione in questi trenta e più anni con favorevole outcome è stata scritta con varie classi di farmaci antiretrovirali: è solo l'ultimo decennio ad avere avuto principale protagonista la classe degli inibitori dell’integrasi. Senza nulla togliere ai meriti che hanno avuto ed hanno ancora nelle cART di successo, inibitori della proteasi, analoghi nucleosidici, NNRTI, grazie anche al miglioramento delle molecole usate in questi ultimi anni.
Gli INSTI sono attualmente la materia prima ed i pilastri delle triplici cART forever, delle dual therapies che promettono buone performance a lungo termine e delle terapie long acting per via intramuscolare che stanno entrando in scena. L’argomento oltre che presente in migliaia di articoli su riviste peer reviewed è stato considerato e sviscerato in ogni suo aspetto tenendo conto dei dati scientifici in convegni e dibattiti a vari livelli. A questo proposito l'articolo di Lucia Taramasso ci ricorda il valore aggiunto della real word evidence e l'importanza di raccogliere in maniera sistematica dati strutturati di buona pratica clinica per avere evidenze che possono dare un notevole contributo all’ottimizzazione della terapia antiretrovirale a lungo termine.
Va ricordato che nella pratica ambulatoriale di tutti i giorni la prospettiva di opzioni terapeutiche sopracitata deve entrare nel processo di scelte individuali di ogni PLWH, su consiglio del medico curante, in uno scenario reale nel quale i pazienti dell'ultimo decennio che usano le combinazioni di successo si differenziano attraverso un tortuoso percorso da quelli che ci sono arrivati … o non ci sono arrivati affatto negli anni precedenti.
In questi ultimi casi il virtuoso concetto della personalizzazione della terapia ed il principio della strategia induzione mantenimento/semplificazione che ha ispirato e guidato la loro storia (di successo!) terapeutico rischia di diventare un ostacolo alla prospettiva di modernizzare lo schema di trattamento assunto.
Abbiamo oggi a disposizione dati certi che lo switch (negli anni scorsi considerato forced!), dai numerosissimi schemi di ART in essere sia la scelta strategica per ... non lasciare indietro nessuno … sulla via della modernizzazione? Forse non ancora abbastanza certi, ma sufficientemente convincenti per considerare tutti questi casi come possibili candidati ad un aggiornamento della loro terapia long life. Talvolta cART che “funzionano” da anni si trascinano problemi di vecchia data (barriera genetica, long term toxicity, convenience), che rischiano di emergere nel lungo termine e che vanno preventivamente evitati. Dalle esperienze che abbiamo accumulato finora si può intravedere che il percorso da seguire per i forced switch nei casi singoli è quello di studiare gli outcome di tutti/tanti con raccolta di dati a 360 gradi nella corrente pratica clinica (efficacia, tollerabilità, convenience, ed in particolare QoL). Valutarli ci consentirà di considerare quanto sia utile/giusto rimanere ancorati a seppur efficaci vecchi schemi di terapia oppure liberarci (medici e pazienti) di un eccellente, ma ingombrante, passato che non consente a tutti di intraprendere i percorsi di cura più attuali.