Nel febbraio 2020 irrompe in Italia la devastante pandemia da SARS-CoV-2 che, oltre al terribile impatto avuto in pochi mesi direttamente sugli indicatori di salute pubblica (>50 milioni di casi al mondo, decine o centinaia di migliaia di morti nei più popolosi paesi occidentali), sbarra la strada ai principali diritti costituzionali, in primo luogo la salute. Solo nei prossimi mesi si potrà fare il bilancio delle ricadute che la ridotta offerta assistenziale ha avuto ed avrà sulle altre patologie acute o croniche; a titolo d’esempio, si può citare la previsione dell’OMS del raddoppio dei 5 milioni all’anno dei decessi attualmente legati alle malattie della povertà (malaria, TBC, AIDS).
È stato inevitabile che anche una malattia cronica evolutiva, seppur ben curata e controllata come l’infezione da HIV, nel 2020 abbia dovuto fare i conti con questo ingombrante compagno di viaggio.
Tra le ombre proiettate da COVID-19 su salute e tranquillità dei PLWHIV, la iniziale paura che la diffusione epidemica privilegiasse le persone immunodepresse, il costante timore di un più severo decorso clinico e di una più elevata mortalità nei contagiati. I pochi dati di cui disponiamo per ora non mettono in evidenza una particolare diffusione del coronavirus nei sieropositivi italiani, mentre purtroppo stanno prendendo corpo i timori che nei pazienti sieropositivi la malattia da COVID-19 abbia un decorso un pò più grave rispetto alle persone di pari età e con caratteristiche sovrapponibili. In attesa di dati forniti da casistiche più ampie e raccolti con metodologia atta ad effettuare analisi corrette su questi due temi, merita di venire affrontato il complesso scenario degli “effetti collaterali” causati da questo micidiale ordigno che è stato COVID-19.
Gli addetti ai lavori non possono che constatare che gli intriganti programmi di semplificazione della cART e i progetti innovativi di alleggerimento delle cure, riduzione dello stigma, miglioramento della qualità di vita, rinnovo dell’armamentario terapeutico sono rimasti in sospeso in attesa che il controllo della pandemia consenta la ripresa dei lavori in tal senso.
Per contro è diventata prioritaria la necessità di garantire la continuità di cura in persone fragili nelle quali la sua interruzione potr ebbe procurare danni irrecuperabili. Nello scorso numero di ReAd files Antonio di Biagio e Sergio Lo Caputo hanno descritto ed ampiamente documentato come le più autorevoli istituzioni di salute pubblica e i network di area HIV/AIDS abbiano tempestivamente affrontato il problema e pubblicato consigli, direttive, raccomandazioni che sono state di grande aiuto per orientare medici e pazienti in questo anno caotico. La particolare stabilità dei PLWHIV in trattamento con un controllo della viremia contribuirà notevolmente a non pagare a caro prezzo l’eclisse sanitaria di cui COVID-19 è responsabile, ma non dobbiamo dimenticare la peculiarità con la quale ad oggi i sieropositivi nel nostro paese vengono seguiti totalmente, se non esclusivamente (per l’erogazione dei farmaci antiretrovirali) negli ospedali di riferimento per entrambe le patologie.
Il lockdown dei mesi scorsi ha combinato due ingredienti come il difficilissimo accesso agli ospedali (enfatizzato della paura dei PLWHIV di farsi seguire in strutture dedicate alla diagnosi e cura di COVID-19) e la “distrazione” di personale dedicato per far fronte alla nuova epidemia, che hanno messo in particolare sofferenza la rete assistenziale per HIV/AIDS. Grazie ad alcuni adattamenti (home delivery, consigli da remoto, telemedicina etc.) il sistema ha tenuto e ha consentito alla quasi totalità dei PLWHIV di continuare a curarsi. Stiamo osservando alcuni segnali di aumento della quota di late presenters e di drop out con AIDS, conseguenza del fatto che la sintomatologia è diventata il driver della richiesta di assistenza.
È tempo di fare una riflessione sul tipo di assistenza totalmente basata sui centri clinici all’interno degli ospedali che abbiamo offerto fino ad oggi. Tutte le malattie infettive in generale, ma HIV in particolare, hanno visto in breve tempo eclissarsi le risorse di spazi e persone dedicate senza una reale e concreta possibilità di assistenza adeguata sul territorio. Rendere virtuoso, efficace ed efficiente il percorso di presa in carico a 360 gradi dei bisogni non solo clinici (ricordo prevenzione e welfare) dei PLWHIV dei passati trent’anni è stata opera complessa e meritoria che tuttavia in questi pochi mesi ha messo in luce i propri limiti nascosti. Le criticità emerse nella gestione di COVID-19 devono essere gli stimoli a fare di HIV 2.0 care un modello di delocalizzazione sul territorio di attività, a partire dalla prevenzione e dai basilari presidi di diagnosi e cura. Una metamorfosi non facile e tanto meno scontata che necessita di un programma concertato con tutti gli stakeholder per potersi concretizzare. Quello che non va disperso è il patrimonio unico di metodologia scientifica, multidisciplinarietà, rapporto medico-paziente, dati accumulati, informatizzazione (banche dati). La scommessa è riuscire a fare della gestione di HIV un modello di medicina preventiva, predittiva, personalizzata e partecipata in cui le sinergie tra assistenza ospedaliera e medicina territoriale si arricchiscano reciprocamente.