La pandemia da COVID-19 è aggravata da elevata morbidità e mortalità legata ad insufficienza cardio-respiratoria; i fattori di rischio identificati sono l’età avanzata, l’ipertensione arteriosa, il diabete, la malattia coronarica, la malattia oncologica pre-esistente (1).
La domanda è se anche il fegato sia direttamente coinvolto nella patogenesi e con quale ruolo, anche se gli epatociti esprimono in modo trascurabile i recettori per l’angiotensina II (Ace2) con cui il virus entra nelle cellule polmonari; essi sono invece espressi nell’epitelio biliare (2) ma la compromissione biliare è minima se non nel marasma dell’insufficienza multiorgano finale (3). Nondimeno sono ora disponibili vari studi che hanno valutato come cofattore autonomo di rischio il ruolo delle alterazioni epatiche iniziali e di quelle emergenti nel corso della malattia virale.
Alterazioni biochimiche e danno epatico preesistente
I dati concordano nella conclusione che l’interessamento epatico non è rilevante nelle forme iniziali ed intermedie della malattia ed è caratterizzato solo da aumenti modesti degli enzimi epatici, soprattutto delle AST che ritornano normali con il guarire dell’infezione; le fluttuazioni della bilirubina sono modeste.
L’alterazione degli enzimi epatici diviene spesso importante nelle forme severe ma non è dovuta ad un danno epatico autonomo, bensì secondario all’ipossia, all’iperpiressia, ai farmaci (antipiretici, antivirali come oseltamivir, lopinavir and ritonavir) con cui è trattata la polmonite da COVID-19; scarsa l’informazione anatomopatologica, sono state documentate solo la steatosi e alterazioni lobulari non specifiche (4-6).
In 5771 pazienti cinesi coll’infezione virale, la percentuale in cui si sono alzate le transaminasi sopra >40 U/L è stata del 39.4% per l’AST e 28.1% per l’ALT, ma ciò nella maggior parte dei casi nelle situazioni severe e critiche. In uno studio di 265 pazienti con COVID-19 a Shanghai, i livelli di ALT e AST erano significativamente più alti nei casi gravi e critici che in quelli lievi o moderati e, in un altro studio di 148 pazienti, l’incidenza di anomalie biochimiche epatiche è stata: LDH (35.1%), AST (21.6%), ALT (18.2%), GGT (17.6%), bilirubina totale (6.1%) e ALP (4.1%) (7-9). Più alta la compromissione enzimatica segnalata a Shenzen (5); di 417 pazienti con COVID-19, il 76.3% aveva test epatici alterati ed i pazienti con danno epatico rilevante erano a maggiore rischio di sviluppare polmonite grave (Figura 1).
La prevalenza di malattia epatica originale è risultata bassa nei pazienti con COVID-19 (10). Non sembrano influenzare il decorso della malattia virale né stati preesistenti di epatopatia da HBV, da HCV od autoimmune (11,12), né terapie immunosoppressive (13); viceversa la Metabolic Associated Fatty Liver Disease aumenta il rischio di un decorso severo (14). I trapianti d’organi solidi sembrano avere un decorso più complicato (15) e, come in ogni patologia, la cirrosi rappresenta un fattore di rischio importante per lo sviluppo delle complicazioni polmonari (16).
Considerazioni conclusive
Si evince dai dati disponibili che la compromissione epatica indotta da COVID-19 è minore e non significativa nella maggioranza dei pazienti con l’infezione virale e che essa aumenta con la gravità della malattia polmonare, rappresentando un indice prognostico negativo; tuttavia, quando appare nelle forme gravi, l’alterazione della funzione epatica non dipende da un danno diretto causato da COVID-19 al fegato, ma è collaterale a più possibili fattori, quali l’ipossia, la febbre, un effetto tossico dei farmaci ed il disordine della risposta immunitaria innata causata dalla gravità dell’infezione virale. Bangash e coll. (17) concludono che il termine di danno epatico indotto da COVID-19 è una “distrazione clinica”.
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