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N.2 2019
Percorsi clinici
Gli inibitori di pompa protonica: maneggiare con cura nei pazienti epatopatici

Silvia Nardelli, Stefania Gioia, Lorenzo Ridola, Manuela Merli, Oliviero Riggio
Dipartimento di Medicina Clinica, Sapienza Università di Roma

Gli inibitori di pompa protonica (IPP) sono tra i farmaci più prescritti in Italia: sebbene siano in generale considerati sicuri e ne sia stato approvato l’utilizzo a lungo termine, dati recenti suggeriscono che la terapia prolungata con IPP possa favorire l’insorgenza di eventi avversi anche gravi.

 

Gli inibitori di pompa protonica (IPP) sono in assoluto tra i farmaci più prescritti in Italia, comunemente utilizzati per il trattamento della malattia da reflusso gastro-esofageo, dell’ulcera peptica e dei sintomi dispeptici associati alle patologie peptiche, grazie alla loro capacità di inibire quasi del tutto la secrezione acida gastrica (1) (Figura 1).

Data l’elevata prevalenza di questi disturbi nella popolazione generale, il rischio di sovrautilizzo e/o di utilizzo inappropriato rappresenta una criticità importante per questi farmaci.

Gli effetti collaterali minori più frequentemente segnalati, tra cui dolori addominali, insorgenza di stipsi o diarrea, nausea e cefalea, sono facilmente gestibili con la variazione della dose e/o della molecola utilizzata.

Sebbene questi farmaci siano in generale considerati sicuri e ne sia stato approvato l’utilizzo a lungo termine, recenti evidenze scientifiche hanno dimostrato come l’assunzione prolungata possa favorire l’insorgenza di eventi avversi anche gravi che hanno sollevato preoccupazione tra i medici e i pazienti stessi.

Diversi studi hanno dimostrato come la terapia con IPP sia particolarmente frequente nella popolazione generale, anche in assenza di reali indicazioni (dispepsia, nausea, difficoltà digestive pur in assenza di una dimostrata ipersecrezione acida gastrica o di malattia peptica) e questo costituisce un problema sia in termini di spesa sanitaria che in termini di effetti collaterali.

Obiettivo di questa review è valutare gli effetti a medio e lungo termine della terapia con IPP nei pazienti affetti da epatopatie croniche che, di per sé, rappresentano una popolazione fragile ad alto rischio di ospedalizzazioni e complicanze.

Associazione tra IPP ed infezioni

L’acidità gastrica costituisce un’importante difesa nei confronti dei patogeni ingeriti e l’aumento del pH gastrico oltre i valori normali sembra favorire la colonizzazione del tratto gastrointestinale superiore, normalmente sterile. Gli IPP e gli anti-H2 aumentano il pH gastrico e sembrano avere, inoltre, un’influenza sui leucociti. Una prolungata ipocloridria secondaria ad inibizione dell’acidità gastrica rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di infezioni (enteriche e non) nei pazienti trattati con questi farmaci (1).

Diversi studi hanno dimostrato come questo rischio infettivo sia notevolmente aumentato nei pazienti affetti da cirrosi epatica in terapia con IPP (2); in particolare, il gruppo italiano di Merli e coll. (3) ha dimostrato, in una coorte di 400 pazienti cirrotici attentamente studiati per le infezioni, che la terapia con IPP rappresenta un fattore di rischio indipen-dente per lo sviluppo di un evento infettivo, insieme alla gravità di malattia. I beta-bloccanti risultano invece protettivi nei confronti delle infezioni, probabilmente perché, riducendo la pressione portale, riducono anche la traslocazione batterica.

Associazione tra IPP ed encefalopatia epatica

L’encefalopatia epatica (EE) è una complicanza frequente e invalidante che può insorgere nei pazienti affetti da cirrosi epatica, caratterizzata da un ampio spettro di alterazioni neuropsichiatriche, variabili da uno stato di lieve confusione fino al coma. La patogenesi di questa complicanza non è del tutto conosciuta, ma diversi studi suggeriscono che la flora batterica intestinale, attraverso la produzione di ammonio e di endotossine, possa giocare un ruolo chiave (4).

Gli IPP, inibendo la secrezione acida gastrica, determinano una variazione del microambiente andando a favorire la sovracrescita intestinale e la traslocazione batterica; da questo presupposto almeno tre studi sono stati condotti per stabilire se la terapia a lungo termine con questi farmaci determina una maggiore incidenza di EE nei pazienti affetti da cirrosi epatica. In particolare, il gruppo danese di Dam e coll. (5) ha dimostrato in uno studio retrospettivo che, su 865 pazienti cirrotici con ascite, il 52% assumeva IPP in maniera continuativa, e che l’incidenza di EE era significativamente più alta nel gruppo di cirrotici che assumeva IPP rispetto a chi non li assumeva.

Successivamente, Chia-Fen Tsai e coll. (6), hanno condotto uno studio caso-controllo utilizzando il database Taiwan National Health Insurance, da cui sono state selezionate 2.332 persone affette da cirrosi epatica, per lo più di genere maschile, dal quale è emersa una correlazione dose-dipendente tra l’assunzione di IPP e il rischio di encefalopatia epatica.

Infine il nostro gruppo ha condotto uno studio prospettico (4) su 310 pazienti cirrotici al fine di indagare non solo l’incidenza dell’EE manifesta, ma anche la prevalenza della cosiddetta EE minima, una forma subclinica di alterazione cognitiva, diagnosticabile soltanto mediante specifici test psicometrici o computerizzati. Il 40% dei pazienti arruolati assumeva IPP da più di sei mesi e, in questo gruppo di pazienti, la presenza di EE minima e lo sviluppo di EE manifesta erano statisticamente maggiori rispetto ai pazienti che non assumevano questi farmaci. Altro dato molto importante è stato un aumento di mortalità nei pazienti cirrotici in terapia con IPP, probabilmente correlato a un aumentato rischio infettivo e a una maggiore incidenza di encefalopatia epatica.

Associazione tra IPP ed epatocarcinoma

E’ noto da diversi anni che l’utilizzo prolungato di IPP, inibendo la secrezione acida gastrica, porta a un’eccessiva secrezione di gastrina e a un peggioramento dell’atrofia della mucosa gastrica; condizioni che aumentano il rischio di sviluppare un tumore allo stomaco (7). Inoltre, l’ipergastrinemia, è stata associata anche all’insorgenza di tumori in altri distretti, tra cui pancreas, ampolla duodenale, colon-retto, polmone e ovaio (8-9).

Un’altra ipotesi carcinogenetica, alternativa all’ipergastrinemia, potrebbe derivare dal fatto che gli IPP, modificando il pH gastrico, alterano la flora batterica intestinale promuovendo la crescita di batteri patogeni e la conseguente traslocazione di questi verso il fegato, con aumento dell’infiammazione locale che potrebbe fungere da stimolo carcinogenetico. Sulla base di tali osservazioni, alcuni studi sono stati condotti a Taiwan per stabilire se l’uso prolungato di IPP potesse rappresentare un fattore di rischio anche per lo sviluppo di epatocarcinoma (HCC).

Il primo studio retrospettivo condotto da Kao e coll. (10) su una vasta popolazione di pazienti affetti da epatite cronica da HBV e HCV non ha evidenziato un’associazione significativa tra l’assunzione di IPP e lo sviluppo di HCC in entrambi i gruppi. Successivamente, Shao e coll. (9) hanno condotto uno studio caso-controllo in pazienti senza epatite cronica, dimostrando un’associazione significativa tra l’utilizzo di IPP e lo sviluppo di HCC (odds ratio 2.86).

Data la natura retrospettiva di tali studi e la non univocità dei risultati, non è possibile concludere con certezza che tali farmaci rappresentino dei fattori di rischio per l’insorgenza di HCC; ulteriori studi prospettici randomizzati saranno necessari per dimostrare un’effettiva associazione tra gli IPP e l’HCC.

Conclusioni

Considerando l’eccessiva prescrizione di IPP anche in assenza di reali indicazioni cliniche e l’elevato numero di effetti collaterali, è compito del medico monitorare attentamente l’uso di tali farmaci nei pazienti epatopatici, riservandolo soltanto in caso di reale necessità al fine di ridurre l’insorgenza di complicanze.

 

Bibliografia

  1. Strand DS, Kim D, Peura DA. 25 Years of Proton Pump Inhibitors: A Comprehensive Review. Gut Liver 2017; 11:27-37.
  2. Dam G, Vilstrup H, Andersen Pk, et al. Effect of proton pump inhibitors on the risk and prognosis of infections in patients with cirrhosis and ascites. Liver Int. 2019; 39:514-21.
  3. Merli M, Lucidi C, Di Gregorio V, et al. The chronic use of beta-blockers and proton pump inhibitors may affect the rate of bacterial infections in cirrhosis. Liver Int. 2015; 35:362-9.
  4. Nardelli S, Gioia S, Ridola L, et al. Proton pump inhibitors are associated to minimal and overt hepatic encephalopathy and increase mortality in cirrhotics. Hepatology. 2018 Oct 5 [Epub ahead of print].
  5. Dam G, Vilstrup H, Watson H, et al. Proton pump inhibitors as a risk factor for hepatic encephalopathy and spontaneous bacterial peritonitis in patients with cirrhosis with ascites. Hepatology. 2016; 64:1265-72.
  6. Tsai CF, Chen MH, Wang YP, et al. Proton pump inhibitors increase risk for hepatic encephalopathy in patients with Cirrhosis in population study. Gastroenterology 2017; 152:134-141.
  7. Cheung KS, Chan EW, Wong AYS. Long-term proton pump inhibitors and risk of gastric cancer development after treatment for Helicobacter pylori: a population-based study. Gut. 2018; 67:28-35.
  8. Chien LN, Huang YJ, Shao YJ, et al. Proton pump inhibitors and risk of periampullary cancers - a nested case-control study. Int J Cancer. 2015; 138:1401-1409.
  9. Shao YJ, Chan TS, Tsai K, et al. Association between proton pump inhibitors and the risk of hepatocellular carcinoma. Aliment Pharmacol Ther. 2018; 48:460-68.
  10. Kao WY, Su CW, Tan EC, et al. Proton pump inhibitors and risk of hepatocellular carcinoma in patients with chronic hepatitis B or C. Hepatology. 2019; 69:1151-64.

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