Nel corso dell’ultimo decennio si è sviluppato un vasto consenso intorno all’idea che potenziare l’offerta diagnostica dell’infezione da HIV, iniziare tempestivamente il trattamento per le persone positive ed ottenere una soppressione virale stabile nel tempo siano gli aspetti centrali di una strategia di controllo dell’epidemia.
Il WHO ha fissato come obiettivi per il 2020 di questa strategia di intervento di raggiungere il 90% di diagnosi tra le persone con HIV, il 90% di terapia antiretrovirale tra le persone diagnosticate ed il 90% di soppressione virale tra le persone trattate.
L’Italia ha compiuto importanti passi verso questo obiettivo. Secondo i dati elaborati nel contesto di uno studio europeo, è stato stimato che nel 2013 nel nostro Paese questi tre parametri del continuum della cura di HIV abbiano raggiunto un valore dell’89%, 80% e 81% (1).
Una analisi preliminare sui dati del 2016 mostrava una sostanziale stabilità del primo parametro mentre le percentuali delle persone trattate e di quelle con soppressione virale erano aumentate rispettivamente all’89,5% ed al 90,1% (Vourli G. in preparazione 2019).
Possiamo ritenere, quindi, di aver sostanzialmente raggiunto gli obiettivi fissati per il 2020, ma ora dobbiamo lavorare per arrivare al 95-95-95 nel prossimo decennio, ed in questo contesto dobbiamo non solo ridurre la frazione di persone non consapevoli dell’infezione, ma anche favorire un miglioramento dell’entrata e del mantenimento in cura. Il mancato ingresso o l’uscita dalle cure per HIV ha un impatto rilevante sulla salute della persona e sul persistere del contagio nella popolazione.
In una analisi condotta sulla coorte ICONA, su 11.285 pazienti, non considerando i trasferiti ad altri centri, 3.963 (35,1%) erano stati persi all’osservazione dai centri di cura per almeno 18 mesi e di questi 1.062 sono rientrati successivamente nella coorte. In un modello multivariato, paragonati ai pazienti che avevano seguito regolarmente il percorso di cura, i pazienti con gap nella cura presentavano un rischio più elevato di sviluppare un evento clinico maggiore sia se rientrati con HIV RNA ≤ 200 (aHR = 1,48, IC al 95%: 1,18-1,85) sia se l’HIV-RNA era > 200 copie/mL (aHR= 1,60, IC 95%: 1,30-1,96) (Mussini C et al, in preparazione 2019).
I risultati degli studi
In alcuni studi italiani è stata analizzata la frequenza con la quale i pazienti sono persi al follow-up clinico. Ad esempio nella coorte ICONA a partire dal 2000 la percentuale dei pazienti persi al follow-up ogni anno era intorno al 5% (2), e percentuali simili sono state riportate ad esempio in uno studio condotto a Bari tra il 2008 ed il 2017 (3). Queste percentuali potrebbero tuttavia essere una sovrastima perché non tutti i pazienti che vengono persi da un centro clinico hanno effettivamente interrotto le cure.
Uno studio americano su 797 pazienti persi al follow-up, non era riuscito ad ottenere informazioni per il 14% dei pazienti. Dei 689 per i quali erano disponibili ulteriori informazioni, il 33% era in cura altrove, il 5% si era traferito o era in carcere, il 2% era deceduto e il 59% aveva effettivamente abbandonato le cure (4). Dati simili sono stati riportati in due studi condotti a Modena e Milano e a Bari (5, 3) (Figura 1).
Altri studi hanno analizzato le caratteristiche associate ad una aumentata probabilità di essere persi al follow-up. I risultati di studi italiani (2, 5-7) sintetizzati in tabella 1, mostrano che il rischio di essere persi al follow-up aumenta per i più giovani, per coloro che hanno un basso livello di istruzione, sono migranti o non hanno una occupazione stabile e per chi ha iniziato recentemente il percorso di cura.
Di converso il rischio è più basso per i pazienti in ART e per chi raggiunge una soppressione virale. Un recente studio suggerisce, inoltre, che l’uscita dal percorso di cura è più probabile in pazienti che presentano sintomi di ansia o che riportano un uso patologico di alcol e stimolanti o che avevano un importante stigma internalizzato (8). La possibilità di uscire dal follow-up è anche più elevata in alcuni momenti del percorso di cura. Ad esempio per gli adolescenti che avevano contratto l’infezione per via verticale, il passaggio da servizi pediatrici a strutture cliniche per adulti è un momento critico che determina un rischio significativo di perdita al follow-up. Ed allo stesso modo questo rischio è elevato per persone in trattamento per HIV durante un periodo di detenzione al momento del rilascio dal carcere. Non esistono, invece, dati che indichino una chiara correlazione con il tipo di terapia o gli effetti collaterali, mentre il rischio di essere persi al follow-up appare più basso nelle terapie efficaci.
Gli interventi
Gli interventi per contrastare il rischio di uscita dal percorso di cura devono articolarsi su più livelli. A livello individuale vanno identificate le persone a rischio più elevato, ad esempio i migranti, le persone con problemi relativi ad abuso di sostanze, e per queste persone vanno realizzati programmi di supporto che le aiutino ad affrontare i problemi che hanno un impatto negativo sul mantenimento in cura. Un secondo livello è quello dell’organizzazione dei servizi, che devono in particolare essere disegnati per gestire efficacemente i momenti critici del percorso di cura, come la fase iniziale, o il passaggio dai servizi pediatrici a quelli per adulti, la prosecuzione delle cure dopo un periodo di detenzione. Ed, infine, vanno sviluppati interventi per tracciare e riportare alle cure le persone che se ne sono allontanate. Vi è, infatti, evidenza che questi interventi, che idealmente dovrebbero essere basati sulla collaborazione tra servizi clinici e servizi territoriali, siano efficaci ed accettabili per i pazienti (9).
Bibliografia
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