La pandemia da SARS-CoV-2 ha provocato un universale e caotico cambiamento del modo di relazionarsi, spostarsi, lavorare, in poche parole vivere in tutto il mondo. Notevoli mutamenti sia politici che organizzativi nel campo del diritto alla salute e della organizzazione della offerta assistenziale e della sua sostenibilità sono stati inevitabili in questo drammatico 2020. I governi di tutto il mondo nell’emergenza hanno instaurato regimi di governance con il principale se non unico scopo di far fronte al micidiale attacco della pandemia da coronavirus.
Oltre, purtroppo, a coloro che ne sono state vittime, i protagonisti principali sono stati gli operatori sanitari che sia in prima linea che negli headquarters hanno dovuto far fronte ad una terribile ondata epidemica con strutture inadeguate e strumenti di diagnosi e cura insufficienti. In uno scenario di pandemia globale per molti aspetti sconosciuto ed inaspettato anche dagli addetti ai lavori, non può che essere utile una riflessione sulla crisi che ha investito la evidence based practice per focalizzare l’attenzione su questo aspetto rilevante seppur particolare.
Dalla identificazione di SARS-CoV-2 l’11 gennaio 2020 sono uscite circa 200 pubblicazioni indicizzate al giorno, per tacere del quotidiano bombardamento dei media in materia. La necessità di dare una risposta urgente a molteplici domande generate in diversi contesti, a partire dalle informazioni, ha messo a mio avviso in crisi l’impianto consolidato della evidence based medicine. La raccolta dei dati clinici dei primi ricoverati, per condividerla con altri, la pubblicazione delle più significative evidenze scientifiche, per applicarle nella pratica clinica il più rapidamente possibile sono state molto concitate e confuse.
La loro analisi critica il più delle volte è stata fatta/interpretata senza le indispensabili nozioni di statistica medica che consentono di valutare i risultati pubblicati con competenza metodologica. I report dei dati clinici ottenuti da database finalizzati alla loro raccolta e da piattaforme di ricerca multicentriche sui grandi numeri di casistiche più omogenee hanno consentito successivamente di definire la storia naturale di COVID-19 con maggiore chiarezza.
Il bisogno di cure immediate per una malattia in alcuni casi a rapidissima progressione ha spinto ad usare in modo talvolta frettoloso, per uso compassionevole, off label, su singoli casi etc presidi terapeutici e farmaci già disponibili per altre indicazioni o in via di sperimentazione senza il supporto di studi clinici randomizzati o di RCT con criteri di inclusione e/o end points approssimativi.
Disegni di studio che abbiano come driver i criteri di selezione dei pazienti in base alla conosciuta ipotesi eziopatogenetica (replicazione virale, risposta immunitaria ed infiammatoria, cytokinic storm, supporto respiratorio, cura delle complicanze) su casistiche ampie e ben caratterizzate si trovano pubblicati di rado. Il caotico, seppur giustificato, impiego di singoli farmaci o classi di farmaci per singoli casi e per casistiche più o meno omogenee con risultati non certo entusiasmanti sono l’inevitabile conseguenza delle urgenze della prima ora.
In seguito sulla ondata epidemica, sono stati programmati e realizzati clinical trial che offrono risultati più solidi e trasferibili nella pratica clinica. Quanto premesso spiega il perché da diversi attori (istituzioni, società scientifiche, network, etc), in differenti aree geografiche e in tempi non allineati siano state pubblicate raccomandazioni, linee guida, vademecum, expert opinion talvolta discordanti e qualche volta ritrattate o corrette repentinamente. Certo anche e soprattutto per la mancanza di strumenti terapeutici efficaci in questo caso, il percorso abituale di realizzazione di indicazioni terapeutiche (RCT, iter regolatorio, clinical practice) in situazioni di reale emergenza come COVID-19 che richiedono risposte tempestive, ha mostrato tutti i propri limiti.
Fa da contraltare il fatto che, a meno di un anno di distanza dalla scoperta del virus, milioni di persone siano già state vaccinate con vaccini ottenuti con piattaforme vaccinali innovative: nel rispetto delle normative vigenti questa è una palese dimostrazione che laddove esistano gli schematismi metodologici (soprattutto i tempi!!) sono superabili senza inficiare la credibilità dei risultati.
Più complicato appare mantenere blindate le indicazioni previste dai programmi di vaccinazione degli Stati con le priorità ad oggi universalmente condivise: operatori sanitari, ultra ottantenni, popolazioni fragili, fasce di età. Una vaccinazione di massa di questa portata non è mai stata fatta e la urgenza di cercare di raggiungere il più rapidamente possibile l’immunità di gregge è evidente. Modulare un piano di interventi anche in base a variabili non incluse ed includibili nelle schede tecniche dei vaccini, come la disponibilità dei singoli vaccini, le facilities per vaccinare, l’andamento dei diversi focolai epidemici è imposto dalla drammaticità della situazione dalle notevoli differenze che caratterizzano i singoli programmi di vaccinazione. Alternative come aumentare la distanza tra la prima e la seconda dose e procrastinare la vaccinazione per coloro che hanno fatto la malattia da SARS-CoV-2 sono state praticate e saranno probabilmente inevitabili, non vanno viste con il pregiudizio del rigore metodologico ma nella prospettiva di ricavarne informazioni su praticabilità ed efficacia sullo spread epidemico che attualmente non abbiamo. Un enorme programma di investimenti sulla salute è necessario e deve tenere conto del fatto che oltre che a tamponare le carenze assistenziali della fase acuta della malattia, serve un rilevante salto di qualità negli strumenti di prevenzione e controllo dell’epidemia, soprattutto a livello del territorio.