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Il punto sulla sindrome da Long COVID che in una quota non...

N.3 2024
Clinica COVID
Long COVID: le scorie della esplosiva pandemia da SARS-CoV-2

Paolo Bonfanti
Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori – Monza, Università degli Studi di Milano-Bicocca

Il punto sulla sindrome da Long COVID che in una quota non indifferente di pazienti produce effetti debilitanti tali da impedire il ritorno a normali condizioni di vita e che, in Italia, rischia di essere considerata una patologia negletta

 

Fig1La recente pandemia di COVID-19 causata da SARS-CoV-2, che non si è ancora pienamente conclusa, ha causato – secondo le stime della Organizzazione Mondiale della Sanità – quasi 800 milioni di casi accertati (sicuramente molti di più, visto l’alto tasso di forme asintomatiche) e più di 7 milioni di morti, e anche per questo dato la stima è in difetto.

Rapidamente ci si è resi conto di come – e questo avviene anche per altre malattie infettive – dopo la fase acuta dell’infezione, la durata del recupero fosse estremamente variabile. La guarigione può infatti avvenire dopo giorni o settimane e alcuni sintomi possono persistere anche per anni.

Questa condizione di persistenza o di comparsa di nuovi sintomi dopo COVID-19 è stata descritta subito dopo poche settimane dall’inizio della pandemia e, in breve tempo, sono stati pubblicati numerosi articoli scientifici che hanno utilizzato termini diversi, come Long COVID, long haul COVID, post COVID syndrome, contribuendo in parte a generare la confusione che per molto tempo ha caratterizzato questa sindrome.

Il problema più grande che ha contraddistinto questo quadro sindromico è stata l’assenza per lungo tempo di una definizione. Attualmente le definizioni più utilizzate sono due, quelle di WHO e quella dei CDC. WHO utilizza il termine di Post COVID-19 Condition che identifica “una condizione che si verifica di solito 3 mesi dopo l'insorgenza della COVID-19 con sintomi che durano per almeno 2 mesi e non possono essere spiegati da una diagnosi alternativa”. I CDC definiscono il quadro di Long COVID come la presenza di “segni, sintomi e condizioni che continuano o si sviluppano dopo l'infezione iniziale da SARS-CoV-2. I segni, i sintomi e le condizioni sono presenti 4 o più settimane dopo la fase iniziale dell'infezione; possono essere multisistemici; e possono presentarsi con un andamento recidivante-remittente e una progressione o un peggioramento nel tempo, con la possibilità di eventi gravi e pericolosi per la vita anche mesi o anni dopo l'infezione. Long COVID non è una condizione unica. Rappresenta molte entità potenzialmente sovrapposte, probabilmente con cause biologiche diverse e diverse serie di fattori di rischio ed esiti".

L’assenza di una definizione, insieme a norme condivise dalla comunità scientifica che uniformassero le modalità di raccolta dei dati, ha determinato una stima della prevalenza della sindrome Long COVID molto ampia, variabile dal 9 all’81% a seconda delle casistiche. L’estrema variabilità è da mettere in relazione, oltre ai problemi metodologici già citati, anche a differenze relative ad aree geografiche, alla durata del follow-up, alla gravità della malattia e alle diverse caratteristiche delle ondate pandemiche. Inoltre, la maggior parte di studi include solo pazienti ospedalizzati, non ha un gruppo di controllo e comprende sintomi auto-riferiti e non standardizzati. Questi errori hanno determinato una sovrastima del rischio di sviluppare Long COVID con importanti riflessi anche sulla opinione pubblica, suscitando preoccupazioni e ansie eccessive e impedendo al contempo di fornire una risposta appropriata a chi veramente soffre di tale sindrome. Cosa abbiamo imparato in questi anni? Ecco alcuni spunti di riflessione.

 

La ricerca

La ricerca e gli studi andranno condotti in modo corretto, evitando errori di classificazione: includendo definizioni chiare dei casi, cercando di evitare l’attribuzione impropria di sintomi comuni e non patologici all’infezione da SARS-CoV-2 e definendo la sindrome da Long COVID come diagnosi di esclusione. Inoltre, sarà importante evitare i bias di rilevazione, individuando i sintomi e i segni della sindrome attraverso studi longitudinali piuttosto che studi trasversali. Infine, gli studi su Long COVID dovranno rimuovere i bias di campionamento, selezionando campioni rappresentativi di partecipanti che non differiscano dai non partecipanti in termini di gravità o durata dei sintomi.

 

L’approccio clinico

Trattandosi di una sindrome con diverse e complesse manifestazioni cliniche, la diagnosi deve essere effettuata attraverso un approccio multidiscliplinare, possibilmente inserito in un percorso diagnostico-terapeutico.

Attualmente un paziente con sospetta diagnosi di Long COVID viene inviato dal curante ai diversi specialisti che in diversa misura si occupano delle possibili sequele della malattia (infettivologo, pneumologo, neurologo, cardiologo, ecc.) in regime ambulatoriale, per visite specialistiche o per esami diagnostici.

L’attività viene quindi svolta separatamente e spetta allo specialista coinvolto creare contatti personali fra i diversi clinici e operare alla fine una sintesi delle diverse valutazioni. Tale tipo di organizzazione per il paziente è estremamente dispendiosa soprattutto in termini di tempo e anche da un punto vista economico: le visite e gli esami non sono generalmente effettuate lo stesso giorno. Il paziente deve quindi adattare ad una situazione rigida e predefinita la ricerca di soluzione. Il modello dovrebbe essere al contrario quello che vede il paziente entrare dall’inizio in un percorso non solo guidato, ma pensato da subito in modo multidisciplinare e che fa sì che l’organizzazione si adegui alle necessità cliniche con risposte appropriate nei tempi e nella parte tecnico-sanitaria, qualificata sul piano scientifico-tecnologico e del supporto umano.

 

Le problematiche assistenziali e di politica sanitaria

Da fine maggio 2023 non è più in vigore l’esenzione sul ticket sanitario che era valida per i pazienti affetti dalle sequele croniche della malattia da COVID-19.

A quattro anni di distanza dall’inizio della pandemia le persone affette da Long COVID, anche grazie all’esistenza di una corretta definizione della sindrome, sono molte meno di quanto si temesse. Tuttavia esiste un numero non piccolo di pazienti che continua ad avere sintomi invalidanti, che non permettono un ritorno alle normali condizioni di vita ed è costretta a numerose visite e percorsi di riabilitazione, senza usufruire delle esenzioni dal pagamento del ticket normalmente destinate a chi è affetto da patologie croniche. Negli Stati Uniti, anche in relazione ad un Sistema Sanitario differente da quelli europei, la sindrome da Long COVID è stata riconosciuta come una forma di disabilità. In Italia rischia di essere considerata alla stregua di una patologia negletta.

Per dare una appropriata risposta a questo bisogno di salute, credo sia necessaria una importante riflessione che coinvolga pazienti, clinici e chi si occupa di politiche sanitarie.

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