Nel giorno in cui ho iniziato a scrivere questo articolo, il 9 novembre, in Italia i completamente vaccinati erano il 76,26% della popolazione. Contando anche chi aveva ricevuto una sola dose e coloro che avevano in precedenza contratto l’infezione e che hanno in seguito ricevuto una dose di vaccino, poteva essere considerato almeno parzialmente protetto il 78,92% degli Italiani. Considerando solo i maggiori di 12 anni, quindi solo gli attualmente vaccinabili, i parzialmente protetti erano l’86,58%, mentre l'83,67% risultava completamente vaccinato. Per arrivare al 90%, sarebbero stati necessari oltre due mesi. Va tuttavia tenuto conto del ruolo che possono ricoprire nella riduzione della circolazione del virus i circa 4,8 milioni di persone con pregressa infezione accertata, 1.644.999 dei quali ha già ricevuto una dose di vaccino, e i molti che hanno contratto l’infezione, magari ne hanno la prova sierologica, ma non avendo mai potuto accedere a un tampone, al ‘sistema’ non risultano. Quanti sono? Nello studio EPICOVID-19, attuato mediante questionario online, tra i 2.073 partecipanti che hanno dichiarato di essere risultati positivi a un test sierologico, ben 1.509 (72.8%) non avevano potuto accedere a un tampone, o erano risultati negativi (1). È verosimile che tra inconsapevoli di essersi infettati e consapevoli, ma senza un tampone per poterlo provare, al conto finale manchino dei pregressi infettati almeno un paio di milioni di persone. Quanto queste persone contribuiscano al numero dei non vaccinati e quante di esse possano essere al momento considerate immuni è questione di ovvia importanza.
Le reinfezioni nei pazienti guariti
In uno studio effettuato in una coorte di oltre 43mila casi con infezione accertata, le reinfezioni documentate in un tempo mediano di circa sedici settimane sono state 129 (0,29%), nessuna delle quali critica o fatale. Confrontando i dati con l’incidenza delle infezioni in una coorte di quasi 150mila sieronegativi, la stima dell’efficacia dell’infezione naturale contro la reinfezione è risultata del 95.2% (95% CI: 94.1-96.0%) (2). In un secondo studio attuato nell’area di Legnano, le reinfezioni documentate durante un follow-up medio di 280 giorni (deviazione standard 41 giorni) sono state 5 su 1.579 casi con pregressa infezione accertata (0.31%; 95% CI, 0.03%-0.58%) contro 528 (3.9%; 95% CI, 3.5%-4.2%) in 13.496 arruolati dopo un tampone negativo (3). I risultati molto simili dei due studi attestano la rarità delle reinfezioni e la valida copertura rispetto alla reinfezione conferita dall’immunità derivante dall’infezione naturale. In adulti in età lavorativa la copertura offerta dalla pregressa infezione sembra durare anche più a lungo anche nel personale sanitario, una popolazione più esposta all’infezione della popolazione generale della stessa fascia d’età. In uno studio francese, attuato in 393 operatori sanitari seguiti da 11 a 13 mesi dopo la fine dei sintomi di COVID-19, è stato osservato un solo caso di reinfezione (0,25%, con un’incidenza pari a 0.40 per 100 anni persona) contro i 69 osservati in 916 soggetti negativi all’atto dell’arruolamento (7,5%, con un’incidenza di 12.22 per 100 anni persona). Ciò depone per un’efficacia protettiva della pregressa infezione pari al 96.7% (p<0.0001) (4). Inoltre, gli anticorpi anti-S risultavano stabilizzati al livello mediano di 2.39 log Arbitrary Units (AU)/mL (Interquartile Range: 2.10 -2.75). Se ne può dedurre, accanto alla rarità della reinfezione in circa un anno di osservazione, che il livello degli anticorpi neutralizzanti venga mantenuto stabilmente nella maggioranza dei casi. Il vantaggio conferito dalla vaccinazione dei guariti dall’infezione è stato valutato in uno studio retrospettivo attuato in Israele, in cui il confronto tra i precedentemente infettati non vaccinati e vaccinati con dose singola evidenzia una discreta riduzione del rischio di reinfezione (0.53, 95% CI da 0.3 a 0.92; p = 0.024) e una modesta, non statisticamente significativa riduzione del rischio di infezione sintomatica (0.65, 95% CI da 0.34 a 1.25, p= 0.194) nei vaccinati (5). Non sembra quindi che la cosiddetta immunità ibrida, conferita da infezione naturale e vaccinazione, rappresenti, quanto a capacità protettiva, un valore aggiunto altamente significativo. In un secondo studio retrospettivo effettuato in Qatar – che ha arruolato 99.226 persone con pregressa infezione e 290.432 persone di età e sesso confrontabili che invece non si erano precedentemente infettate - a partire da 14 o più giorni dalla seconda dose di vaccino BNT162b2 sono state osservate rispettivamente 159 reinfezioni e 2.509 infezioni, con un’incidenza cumulativa stimata a 120 giorni di follow-up di 0,15% (95% CI da 0,12% a 0,18%) verso 0,83% (95% CI da 0,79% a 0,87%) e un rapporto di rischio aggiustato di 0,18; 95% CI da 0,15 a 0,21 (P<0,001). Considerando i vaccinati con mRNA-1273 - in totale 58.096 con pregressa infezione e 169.514 non precedentemente infettati, con rispettivamente 43 reinfezioni e 368 infezioni incidenti – l’incidenza cumulativa stimata è risultata rispettivamente di 0,11% (95% CI da 0,08% a 0,15%) e di 0,35% (95% CI da 0,32% a 0,40%), con un rapporto di rischio aggiustato di 0,35% (95% CI da 0,25 a 0,48;
P<0,001) (6). L’incidenza di reinfezione nei guariti vaccinati sarebbe quindi inferiore alla pur bassissima incidenza (tra lo 0,25 e lo 0,31%) rilevata in guariti non vaccinati nei tre studi precedentemente citati (2-4) in un periodo compreso tra i 4 e i 12 mesi, senza significative modificazioni del rischio di sviluppare malattia grave (5), che resta molto basso in tutti gli studi considerati.
Un’altra questione aperta riguarda gli effetti indesiderati della vaccinazione nei guariti. In un recente studio abbiamo potuto valutare gli effetti del vaccino in 407 operatori sanitari, 334 (82,1%) dei quali non precedentemente infettati con SARS-CoV-2 e 73 (17,9%) precedentemente infettati (7). Sebbene non siano stati segnalati eventi avversi gravi, effetti collaterali da lievi a moderati si sono verificati più frequentemente dopo la prima dose nei soggetti con infezione pregressa rispetto ai soggetti non precedentemente infettati (67% contro 42%; p<0,001). In particolare, i livelli di picco di IgG anti-SARS-CoV-2 post-vaccinazione >20.000 AU/mL si sono dimostrati indipendentemente associati al rischio di sviluppare febbre >38°C (odds ratio aggiustato 5,122, 95% CI da 2,368 a 11,080, p<0,0001). Dopo una sola dose di vaccino, infatti, il livello delle IgG anti-S nei vaccinati con pregressa infezione è risultato 32 volte superiore rispetto a quello dei non precedentemente infettati.
La terza dose
Il tema terza dose si è imposto in seguito alle evidenze emerse in merito al declino dell’efficacia del vaccino nel tempo, che risulta più veloce negli anziani (8-9). Quando ho iniziato a scrivere questo articolo avevano ricevuto una terza dose circa 2 milioni e trecentomila persone, quasi il 4% della popolazione italiana. Alla correzione delle bozze, il 25 novembre, le ‘terze dosi’ erano già 4.936.184. Un robusto motivo a sostegno della generalizzazione della terza dose è fornito da un lavoro israeliano che ha analizzato le cariche virali in oltre 16.000 casi durante l’ondata di pandemia dominata dalla variante Delta, dimostrando che i vaccinati se infettati presentano cariche virali inferiori rispetto ai non vaccinati. Un effetto che inizia a diminuire due mesi dopo la vaccinazione, per essere ripristinato dopo una dose di richiamo di BNT162b2 (10). È verosimile inoltre che la terza dose possa dover essere offerta prima che agli altri alle persone che hanno ricevuto vaccini a vettore virale, la cui efficacia sembra ridursi più velocemente. In Italia i vaccinati con vaccini a vettore virale sono circa 7,5 milioni. Un’ultima questione, che richiederebbe assai più spazio, riguarda la necessità della misurazione degli anticorpi neutralizzanti al fine di poter valutare, specie nei soggetti più fragili, l’effettiva risposta al vaccino e conseguentemente provvedere alla loro protezione con strategie di immunizzazione passiva.
Bibliografia
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