Differenze di genere ed infezione da HIV

La possibilità di trasmettere l’infezione per via orizzontale (eterosessuale) e verticale inserisce la donna sieropositiva al centro di complesse problematiche che necessitano di una gestione specifica e di un supporto maggiore rispetto a quello fornito ai pazienti di sesso maschile. Il ruolo di partner in una coppia ed al tempo stesso di madre pone la donna sieropositiva in una condizione di particolare fragilità e di rischio più elevato. I fattori che impattano sulla vita della donna sieropositiva sono molteplici e vanno da fattori come ansia e vergogna, alla paura delle alterazioni della propria immagine corporea, la donna quindi vive la sieropositività in modo differente rispetto all’uomo.

Studi trasversali e longitudinali hanno evidenziato sia nell’infezione acuta (4-8) che cronica (9-10) che le donne presentano cariche virali plasmatiche inferiori e conte di linfociti CD4 superiori rispetto agli uomini, ma, nonostante i più bassi livelli di viremia, un maggior rischio di progressione verso l’AIDS (11). Le donne presentano o segnalano meno sintomi durante l’infezione primaria, con un possibile ritardo della diagnosi (9).

Figura 1

Il genere può giocare un ruolo importante anche nel processo dell’immunoattivazione, influenzando differenti outcome clinici (12). Esiste per esempio una più alta prevalenza di infarto del miocardio tra le donne HIV-positive rispetto alle donne sieronegative ma anche rispetto agli uomini HIV-positivi (13,14). Le donne HIV-positive presentano anche percentuali significativamente più elevate di segmenti coronarici con placca non calcifica rispetto alle donne HIV-negative, ma anche più alte percentuali rispetto agli uomini sia HIV-positivi che HIV-negativi (15). Le donne sieropositive in trattamento antiretrovirale hanno un rischio aumentato di eventi avversi quali rash cutaneo, acidosi lattica, pancreatite ed accumulo di grasso corporeo e questo può in parte spiegare le differenze di aderenza al trattamento antiretrovirale nei due sessi (Figura 1) (16,17).

Le donne hanno maggiori probabilità di sviluppare effetti collaterali al trattamento probabilmente per la minore massa corporea che comporta, a parità di dose giornaliera, concentrazioni maggiori di farmaco, con la conseguente necessità di modificare, per motivi di tossicità, il regime terapeutico (18,19).

Nonostante le donne rappresentino nel mondo la metà delle persone sieropositive, continuano ad essere sottorappresentate negli studi clinici di farmaci antiretrovirali e può quindi essere difficile concludere se un farmaco specifico sia efficace nelle donne così come negli uomini o se ci siano differenze nella biodisponibilità (farmacocinetica) e/o nell’attività (farmacodinamica) dei vari farmaci.

Uno studio recente di Curno et al. ha esaminato la partecipazione delle donne a studi clinici di farmaci antiretrovirali (ARV), di vaccini HIV (VAX) e di strategie terapeutiche (CURE) (Tabella 1).

Tabella 1

Le donne rappresentano una mediana del 19,6% dei partecipanti a studi clinici di terapia antiretrovirale (ARV), del 38,1% negli studi di vaccini HIV (VAX) e dell’11,1% negli studi di strategie di cura (CURE).

Anche se le donne rappresentano la metà delle persone con HIV nel mondo, continuano ad essere sottostimate nei trial clinici su HIV. Inoltre, nonostante un significativo aumento nel corso degli anni del numero di donne arruolate negli studi clinici relativi a farmaci antiretrovirali e vaccini HIV, il numero mediano degli arruolamenti femminili continua ad essere basso, 19,2% e 38,1% rispettivamente.

Lo studio di Curno et al. (20) conferma quanto già osservato in precedenti studi relativamente al basso numero di donne arruolate in trial sull’HIV. Uno studio del 2012 sponsorizzato da diverse aziende farmaceutiche evidenziava una partecipazione femminile negli studi clinici dal 2000 al 2008 del 20% circa (21) ed una review di 49 trial clinici sul trattamento antiretrovirale tra il 1990 ed il 2000 riportava una media del 12,3% di partecipazione femminile (22). Una bassa partecipazione femminile è stata osservata anche in studi inerenti alla malattia cardiovascolare, patologie oncologiche, terapie del dolore e trattamento della depressione (23-26).

Aumentare il numero delle donne negli studi clinici randomizzati e controllati in modo da comprendere il diverso metabolismo ed i meccanismi specifici di tossicità, potrebbe aiutare ad identificare una terapia “personalizzata” sulla base delle caratteristiche del sesso del paziente.

E’, quindi, indispensabile che i nuovi trial clinici, rivolti alla sperimentazione di nuove molecole o di nuove strategie terapeutiche, arruolino un appropriato numero di donne per meglio evidenziare tali problematiche. Solo così sarà possibile valutare le differenze di genere, in particolare anche in merito ad accesso, aderenza, tossicità e risposta alla terapia antiretrovirale.

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