Il paziente immunotollerante
 
Questa strategia non interventista era la sola raccomandata quando l’unico trattamento disponibile era l’interferone (IFN), dal momento che l’efficacia antivirale dell’IFN - nel soggetto immunotollerante - è del tutto marginale, a fronte di costi ed effetti collaterali significativi. Tuttavia, negli anni, c’è stato un ripensamento della strategia da seguire per due ordini di motivi: innanzitutto la disponibilità di farmaci antivirali ad azione diretta, ad elevata barriera genetica, con favorevole profilo di tollerabilità e che consentono di ottenere un controllo stabile della replicazione virale virtualmente in tutti i pazienti, ha modificato il rapporto costo/beneficio della terapia antivirale nel paziente con infezione da HBV.
 
In secondo luogo, è stato dimostrato che un virus in attiva replica con livelli persistentemente elevati di HBV-DNA circolante può rappresentare di per sé un rischio per lo sviluppo di cirrosi e di carcinoma del fegato (HCC), in particolare in alcune categorie, ad esempio i soggetti di età superiore ai 30 anni e quelli con familiarità per cirrosi e HCC, che sono particolarmente esposti al rischio di progressione (6-7).
In altri termini, nel singolo paziente il beneficio del trattamento va ripensato in base al rischio evolutivo (8-9), ed è molto interessante ripensare questo concetto alla luce dei dati presentati all’EASL 2013 sulla riduzione del rischio di sviluppare HCC in pazienti efficacemente soppressi con tenofovir rispetto al rischio che ci si aspettava in base ad un modello di predizione in pazienti non trattati (10) (Figura 2).
 
 
Nella definizione di malattia HBV correlata, l’infiammazione rappresenta il principale motore dell’evoluzione del danno di fegato (11), e le linee guida modulano l’indicazione al trattamento in base alla presenza di ipertransaminasemia. La recente evidenza che nel paziente in fase di immunotolleranza possa esistere un rischio di progressione ha riportato l’attenzione sulla centralità della biopsia epatica, per completare l’iter diagnostico e documentare la presenza di fibrosi, e della definizione di normalità delle ALT per identificare i pazienti più a rischio di progressione (Tabella 2).
 
 
 
E’ estremamente interessante osservare come le tre linee guida, EASL, AASLD e AISF/SIMAST/SIMIT, abbiano declinato il tema della opportunità al trattamento in funzione dei valori normali o quasi-normali di ALT nel paziente HBeAg positivo (Tabella 3).
Innanzi tutto il limite di HBV-DNA sopra il quale si pone indicazione a considerare il trattamento è di 2.000 UI/mL per EASL mentre le altre società lo mantengono a 20.000 UI/mL.
 
 
Inoltre, nel paziente con valori normali di ALT, AASLD suggerisce un monitoraggio trimestrale o semestrale delle ALT con periodica rivalutazione dello stato HBeAg (ogni 6-12 mesi) mentre EASL e AISF/SIMAST/SIMIT suggeriscono l’importanza della valutazione istologica del danno di fegato che solamente EASL modula sulla base dei fattori di rischio rappresentati dall’età (>30 anni) e della familiarità per cirrosi o HCC, indicando l’opportunità di trattare il paziente con HBV-DNA >2000 UI/mL, valori normali di ALT e documentato danno di fegato, con una raccomandazione A1 (evidenza di elevata qualità, fortemente raccomandato) (Tabella 4).
Più raffinata la modulazione della scelta nei pazienti con valori di ALT compresi tra una e due volte il limite superiore della norma.
 
 
In questi casi EASL ribadisce l’importanza dell’età e della storia familiare. AASLD stringe i tempi del monitoraggio (ogni 3 mesi le ALT e ogni 6 mesi l’HBeAg) e definisce l’età di 40 come parametro per l’esecuzione della biopsia. AISF/SIMAST/SIMIT invece formula il paradigma: può, dovrebbe, deve (Tabella 5) in cui la forza della raccomandazione al trattamento nel paziente HBeAg positivo con valori di ALT compresi tra 1 e 2 volte il limite superiore della norma si declina sulla base della fibrosi, il che riporta la biopsia epatica al centro del processo decisionale con un ranking A-II (evidenza di elevata qualità con più di un clinical trial ben disegnato).
Data la centralità diagnostica che il valore delle ALT ricopre all’interno di un percorso diagnostico-terapeutico è chiaro che il loro valore soglia dovrebbe essere ridefinito secondo i più recenti parametri, posizionando i limiti superiori della norma a 19 UI/mL per le femmine e a 30 UI/mL per i maschi (12).
© Effetti srl