Intensificazione e reservoir virali
 
Sono stati così disegnati una serie di studi di intensificazione volti a verificare se l’aggiunta di un altro farmaco a un regime già soppressivo fosse in grado di abbattere la replicazione residua. Benché il farmaco più utilizzato per questa strategia sia stato raltegravir, in alcuni studi sono stati impiegati anche l’enfuvirtide e gli inibitori del CCR5. I risultati preliminari di alcune di queste ricerche erano già stati presentati al CROI dello scorso anno, e in generale non sono stati positivi. Infatti, a conferma di quanto suggerito dagli studi patogenetici riguardo alla stabilità dei reservoir virali, nessun tipo di intensificazione è stato in grado di influenzare l’entità della replicazione residua.
 
Quest’anno i risultati definitivi delle ricerche già presentate in passato e quelli di nuovi studi sono stati riportati nel corso di due sessioni: la prima intitolata New Insights into Retroviral Pathogenesis e la seconda Impact of Treatment Intensification on HIV Reservoirs and Immune Activation.
 
In generale, tutti i dati presentati hanno confermato che l’aggiunta di raltegravir o maraviroc o enfuvirtide non ha modificato i valori di replicazione residua nel plasma, l’HIV DNA nei PBMC e l’HIV RNA cellulare a livello intestinale (Figura), mentre ha ridotto, in generale, i marcatori di immunoattivazione (Wiegand, abstract 280, Yukl S, abstract 279; Gutierrez, abstract 284; De Laugerre, abstract 281).
 
 
Secondo gli autori, questi risultati indicherebbero che la viremia residua misurabile nel plasma non deriva da una replicazione attiva, non essendo influenzata dai farmaci antiretrovirali.
 
Diversa l’interpretazione fornita da J Martinez Picado a commento dello studio INTEGRAL (Buzon, abstract 100LB), un trial controllato condotto in 69 pazienti con HIV RNA < 50 copie/ml, metà dei quali sottoposti a un’intensificazione con raltegravir per 48 settimane. In questo gruppo non sono state osservate modificazioni significative della replicazione residua (misurata con il single genome assay) e dell’HIV DNA totale e integrato. Il 30% di essi ha presentato, però, un aumento transitorio dell’HIV DNA episomiale (2-LTR) non integrato, indicativo dell’attività antivirale del raltegravir; questi stessi pazienti presentavano al baseline livelli più alti dei marcatori di immunoattivazione, successivamente normalizzati dall’intensificazione con raltegravir. L’interpretazione degli autori, che è stata oggetto di un’ampia discussione, è che nel 30% dei pazienti con viremia inferiore a 50 copie esista comunque una replicazione attiva, documentata dall’aumento dei 2-LTR (che implica la presenza di virus infettante, nuovi round di infezione e trascrizione inversa). In questi pazienti il raltegravir sarebbe quindi in grado di produrre una “perturbazione” del reservoir virale. È evidente, quindi, che la chiave per sviluppare delle strategie vincenti consiste proprio nel chiarire l’origine della viremia residua: mentre gli antiretrovirali possono essere efficaci solo in presenza di una replicazione attiva, nuovi approcci sono necessari per aggredire la replicazione latente, in cui il provirus, complessato con la cromatina e incapace di produrre HIV RNA, potrebbe essere ipoteticamente “tirato fuori” con tecniche di “chromatin remodelling”, come affermato da F Maldarelli nel simposio che ha concluso il CROI: “The Future of HIV Therapeutic Research - The Treatment Agenda”.
 
Infine, merita un accenno la strategia di intensificazione mirata a uno scopo diverso: aumentare i CD4 nei cosiddetti “discordanti immunologici”. Anche in questo caso, però, gli studi presentati non hanno potuto dimostrare la validità di questo approccio (Hatano, abstract 101LB; Wilkin, abstract 285).